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Global Columns

La lezione dell’Ecuador

Angie G50

La Reppublica / Moisés Naím con traduzione da Fabio Galimberti

Nonostante sia il Paese delle isole Galápagos e conti 32 vulcani imponenti, molti dei quali attivi, e nonostante sia il principale produttore di banane del mondo, è raro che l'Ecuador attiri l'attenzione dei mezzi di comunicazione internazionali. Non è il Brasile, il Messico o l'Argentina, i giganti della regione; la sua instabilità politica non è accentuata come quella del vicino Perù e non è stato depredato come il Venezuela. Insomma, è un normale Paese latinoamericano: povero, disuguale, ingiusto, corrotto e pieno di persone per bene e lavoratrici. La sua democrazia è difettosa ma competitiva, le istituzioni sono deboli ma esistono e l'economia, l'ottava del continente per dimensioni, dipende dalle esportazioni di petrolio, banane, gamberoni e oro. E dai soldi che gli ecuadoriani che vivono in altri Paesi inviano alle loro famiglie.

In questi giorni l'Ecuador compare con più frequenza nei titoli dei giornali. Ci sono le elezioni presidenziali, e questo fa sempre notizia. Ma stavolta, secondo gli analisti, il risultato elettorale potrebbe segnalare tendenze che vedremo nel resto dell'America Latina.

Una è che la sinistra tornerà al potere. A cavallo del nuovo secolo, nella regione ci fu una proliferazione di presidenti di sinistra. Da Lula a Chávez, da Morales ai coniugi Kirchner e da Bachelet a Correa.

Nel primo turno delle elezioni in Ecuador nessun candidato ha ottenuto voti sufficienti, rendendo necessario un ballottaggio l'11 aprile. Il candidato più votato nel primo turno è stato Andrés Arauz, pupillo dell'ex presidente di sinistra Correa. Il secondo posto è oggetto di una feroce battaglia fra il candidato conservatore Guillermo Lasso e il candidato indigeno Yaku Pérez, che ha denunciato brogli. L'imprenditore promette efficienza, crescita economica e occupazione, il candidato di sinistra offre più uguaglianza, meno povertà e più giustizia e il leader indigeno giura che rivendicherà i diritti del popolo originario e proteggerà l'ambiente. Questo menù elettorale lo abbiamo visto in altri Paesi. Il risultato è imprevedibile. In Brasile il presidente è un populista di destra e in Messico un populista di sinistra. Abbiamo visto presidenti di destra adottare politiche di sinistra e viceversa. E questa tendenza continuerà.

Ma nelle elezioni latinoamericane c'è un'altra tendenza importante: l'uso di prestanomi politici. È la propensione di presidenti che non possono essere rieletti a "collocare" al potere familiari o collaboratori, nella speranza che agiscano come loro prestanomi.

Arauz, in testa al primo turno in Ecuador, è stato candidato grazie all'appoggio dell'ex presidente Correa, che non ha potuto correre perché interdetto dalle cariche pubbliche per corruzione. Cristina Kirchner è stata presidente dell'Argentina grazie al marito Néstor Kirchner (e rieletta dopo la morte del marito). In Messico, la deputata Margarita Zavala, moglie dell'ex presidente Calderón, è stata candidata alle presidenziali del 2018, in cui è stato eletto Andrés Manuel López Obrador. In Colombia Santos e Duque sono arrivati alla presidenza grazie all'appoggio dell'ex presidente Uribe, in Brasile Rousseff è stata presidente grazie a Lula e in Bolivia Arce ha vinto grazie alla popolarità del suo ex capo Morales.

Il populismo, di destra e di sinistra, con le sue promesse impossibili da realizzare, la sua adorazione per politiche che non funzionano e le sue propensioni autoritarie è una minaccia. Ma la permanenza in carica è una minaccia ancora maggiore. Se un presidente populista è incompetente o corrotto, ma la democrazia funziona, saranno gli elettori a sollevarlo dalla sua carica. Una nazione può sopravvivere a un periodo con un cattivo presidente, ma il danno rischia di essere enorme e irreversibile se rimane al potere. O anche se, terminato il suo governo, continua a esercitare il potere attraverso un presidente che agisce come suo prestanome politico.

È importante imporre limiti legali alla possibilità dei presidenti di rimanere in carica. L'ideale sarebbe che fossero eletti per un periodo non superiore a sei anni e non inferiore a cinque. Al termine di questo periodo, non potrebbero più aspirare alla presidenza. Mai più. Questa soluzione è drastica e imperfetta. Ma non è impossibile da adottare e i suoi difetti sono tollerabili. Purtroppo, la possibilità di rimanere in carica attraverso prestanomi politici è più difficile da impedire. Ma è importante identificarla, denunciarla e cercare di sradicarla.

(Traduzione di Fabio Galimberti)