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Global Columns

La globalizzazione non è finita

Angie G50

La Reppublica / Moisés Naím con traduzione da Fabio Galimberti

Dicono che abbiamo raggiunto la fine della globalizzazione. Basta guardarsi intorno: il protezionismo di Trump, la Brexit, i problemi alle catene logistiche creati dal Covid e dalla criminale aggressione di Putin in Ucraina hanno tutti contribuito a far deragliare il treno dell’integrazione globale messo in moto dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989. Con i listini azionari che crollano, i tassi di interesse in aumento e un rallentamento dell’economia mondiale che si profila all’orizzonte, siamo arrivati al funerale della globalizzazione.

È un punto di vista molto in voga, ma è sbagliato. La sorpresa degli ultimi due anni, al contrario, è che la globalizzazione ha mostrato un’ottima tenuta: in una fase di turbolenze eccezionali, la forza e la varietà dei legami fra Paesi hanno sorpreso per la loro persistenza. I dati suggeriscono anzi che la crisi finanziaria mondiale del 2008-2009 con la Grande Recessione che ha innescato, hanno avuto un impatto negativo sull’economia e la politica mondiale maggiore di qualsiasi altro evento dell’ultimo decennio.

Il volume degli scambi internazionali è cresciuto molto durante il periodo di iperglobalizzazione tra il 1985 e il 2008, passando da circa il 18 al 31 per cento del valore totale dell’economia mondiale. Con la crisi del 2008, quella percentuale è scesa intorno al 28%. E lì è rimasta, grossomodo, da allora.

Il protezionismo di Trump ha ridotto l’integrazione dell’economia statunitense con il resto del mondo: negli Usa, il volume degli scambi internazionali è passato dal 28 per cento del Pil nel 2015 al 23 per cento nel 2020. Le esportazioni del Regno Unito verso l’Ue sono calate di un massiccio 14 per cento nell’anno successivo alla Brexit. Ma queste contrazioni sono state compensate da una maggiore integrazione economica in Asia orientale e in Africa.

L’integrazione economica sembra avere una sua forza di inerzia, capace di resistere perfino a colpi micidiali come le guerre commerciali inaugurate da Trump o il voto inglese in favore della Brexit. Uri Dadush, un esperto di economia internazionale, ha scoperto che le barriere protezionistiche erette negli ultimi anni hanno avuto un effetto trascurabile sui commerci globali. È importante anche tenere a mente che la globalizzazione è un fenomeno che va ben al di là dei commerci. Si fonda sulla diffusione mondiale della conoscenza, delle idee, delle filosofie, della politica e delle persone. E in questo senso più generale l’impressione è che stia accelerando: TikTok ha 1,4 miliardi di utenti sparsi in più di 150 Paesi, per fare un esempio.

La scienza è un altro esempio della forza della globalizzazione. Gli scienziati di tutti il mondo competono con i loro colleghi di altri Paesi, ma collaborano anche, con una frequenza mai vista prima. La velocità con cui sono riusciti a creare i vaccini contro il Covid, e poi a produrli su larga scala e distribuirli in giro per il mondo in tempi record, salvando milioni di vite umane, è un esempio significativo.

Naturalmente la globalizzazione non è invulnerabile e non tutte le sue conseguenze sono positive. I livelli di diseguaglianza sono inaccettabili, per esempio. Se la guerra in Ucraina dovesse trascinarsi molto più a lungo o (tragicamente) trasformarsi in guerra nucleare, potrebbe interrompere i rifornimenti di energia, cibo e fertilizzanti che rappresentano la struttura portante della globalizzazione economica. Peggio ancora: un attacco militare cinese contro Taiwan potrebbe spazzare via gran parte della capacità produttiva di microchip di quel Paese, azzoppando un mondo sempre più dipendente dalle tecnologie digitali.

Queste minacce esistono, sono serie e reali, ma sono coniugate al futuro. Al momento, il mondo è più integrato di quanto non fosse dieci anni fa. Nonostante i suoi costi, i suoi problemi e i suoi incidenti, l’integrazione fra Paesi non è morta. La sfida che dovremo affrontare sarà capire come proteggerci dai suoi difetti e sfruttare al massimo le porte che ci apre.

(Traduzione di Fabio Galimberti)