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Global Columns

Un obiettivo poco realistico

Angie G50

World Energy & Oil / Moisés Naím

Nel dicembre del 2017, l’amministrazione Trump ha reso pubblica la propria Strategia di Sicurezza Nazionale. Il documento preannunciava che, “per la prima volta da intere generazioni, gli Stati Uniti saranno un paese dominante nel settore dell’energia”.

La Strategia individuava cinque misure prioritarie necessarie a raggiungere questo obiettivo: “(1) Ridurre le barriere alla produzione di energia, promuovendo risorse energetiche pulite e sicure e limitando gli oneri normativi che ostacolano la produzione di energia e frenano la crescita economica; (2) Favorire le esportazioni di risorse, tecnologie e servizi energetici, aiutando paesi alleati e partner commerciali a diversificare le proprie fonti di energia e assicurando al contempo vantaggi economici agli Stati Uniti; (3) Garantire la sicurezza energetica collaborando con alleati e partner alla protezione delle infrastrutture energetiche globali da attacchi fisici e informatici; (4) Rendere universale l’accesso a fonti di energia a basso costo e affidabili (quali combustibili fossili a elevata efficienza, energia atomica ed energie rinnovabili) per ridurre la povertà, stimolare la crescita economica e favorire la prosperità; (5) Accrescere la superiorità tecnologica statunitense nelle tecnologie nucleari, reattori e batterie di nuova generazione, nello sviluppo dell’informatica e nelle tecnologie di cattura del carbonio, mantenendo al contempo il ruolo di leader mondiale nel campo delle tecnologie energetiche innovative ed efficienti”.

Questa nuova linea programmatica mira a sostituire due obiettivi tradizionali della politica energetica statunitense: la sicurezza degli approvvigionamenti e l’indipendenza dall’estero. L’obiettivo non è più solo assicurare agli Stati Uniti maggiore indipendenza e sicurezza energetica ma renderli anche dominanti nel settore dell’energia. Questo è naturalmente in linea con il motto del presidente Trump “Make America Great Again” (Torniamo a fare grande l’America).

Quanto è realistico questo obiettivo? Da circa sei anni, nuove tecnologie hanno assicurato agli Stati Uniti lo status di superpotenza energetica: oltre a eguagliare e spesso superare in quanto a produzione i tradizionali colossi degli idrocarburi (Arabia Saudita e Russia), gli USA sono ormai diventati uno dei primi paesi esporta tori a livello mondiale. Sembra del tutto naturale, dunque, che l’andamento brillante degli ultimi anni alimenti ulteriormente le ambizioni statunitensi di imporsi come un leader mondiale dell’energia. Se gli obiettivi di indipendenza e sicurezza energetica sono stati raggiunti, volere di più sembra l’ovvio passo successivo. E in questo contesto “di più” significa essere in grado di determinare l’andamento dei mercati globali dell’energia e forse addirittura di fissare i prezzi e controllare la produzione a livello mondiale. Si tratta indubbiamente di una prospettiva allettante per i responsabili delle politiche (e a maggior ragione per i politici) statunitensi. A un esame più attento, tuttavia, il concetto di dominio globale si dimostra più problematico come politica che come slogan.

I dominati si opporranno al dominio
Nel settembre del 2017, il segretario degli Interni statunitense Ryan Zinke ha affermato: “Durante il mandato del presidente Trump metteremo gli Stati Uniti al primo posto e daremo la priorità all’energia statunitense”, senza rilevare alcuna conflittualità tra le due politiche. Come hanno osservato molti analisti, tuttavia, “mettere gli Stati Uniti al primo posto” rischia di isolarli. E può darsi che gli USA non siano in grado di raggiungere il dominio energetico senza l’aiuto concreto di alleati stranieri. Poche industrie sono così globali come quella energetica, che per struttura, organizzazione e funzionamento non va molto d’accordo con protezionismo, isolazionismo o con slogan come “avanti da soli”.

Secondo l’amministrazione Trump, l’obiettivo di rendere gli Stati Uniti il paese egemone nel settore dell’energia mondiale sarebbe una politica a basso costo, quasi priva di attriti e che non necessita di alcun appoggio esterno né di alleati stranieri. Viene dato per scontato che gli altri paesi, consumatori o concorrenti, i fornitori di tecnologie e le aziende energetiche accettino il nuovo ordine energetico imposto da Washington senza dare battaglia e che i costi di questi attriti siano trascurabili e valgano la pena se conducono a un mondo in cui gli Stati Uniti dominano il mercato energetico. Ebbene, la fondatezza di queste ipotesi è a dir poco discutibile.

Si pensi, per esempio, alle recenti tensioni tra Stati Uniti ed Europa sulla cooperazione commerciale e militare, in gran parte conseguenza della politica dell’America First, che rischiano di costituire un deterrente all’aumento delle esportazioni di energia statunitensi sui mercati energetici europei. I recenti tentativi statunitensi, in parte riusciti, di entrare nel mercato europeo del petrolio e del gas hanno già scatenato la reazione della Russia, un temibile concorrente degli USA nei mercati energetici di Europa e Asia. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito “concorrenza sleale” l’iniziativa statunitense e ha promesso solennemente di contrastarla. Anche se le esportazioni in Europa di petrolio e gas statunitensi consentiranno indubbiamente ai paesi europei di ridurre al minimo la propria notevole dipendenza dai combustibili fossili russi, è improbabile che si sostituiscano all’importante rete di oleodotti e gasdotti già esistente tra Europa e Russia. Inoltre, gli altri grandi produttori di energia non assisteranno passivamente ai tentativi statunitensi di monopolizzare questo cruciale settore.

La politica dell’America First genererà episodi di isolazionismo economico e sarà da ostacolo alla cooperazione commerciale, con ripercussioni dirette sulle esportazioni statunitensi di petrolio e gas, il cui aumento è un requisito essenziale per il dominio energetico perseguito. Come ha osservato Bethany McLean, autrice del volume “Saudi America: The Truth about Fracking and How It’s Changing the World”, per gli USA è necessario mantenere buoni rapporti con il mondo esterno. McLean scrive: “In un mondo in cui oltre il 40 percento dei ricavi delle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione arriva dall’estero, l’economia statunitense è legata a doppio filo a quella globale”.

L’energy dominance dipende dal fracking
Le riserve petrolifere statunitensi accertate, circa 50 miliardi di barili, durerebbero più o meno un decennio al tasso attuale di produzione. Le risorse di shale oil, ancora sotto sfruttate, sono invece molto ingenti e potrebbero sostenere elevati livelli di produzione per decenni, consentendo agli USA di conquistare un ruolo dominante in questi mercati. Il problema non sono le risorse ma l’economia. A differenza dei paesi dell’OPEC, che decidono centralmente i livelli di produzione, negli Stati Uniti sono le compagnie private a stabilire livelli e prezzi, decidendo verosimilmente in base a calcoli di natura puramente economica.

Non è possibile garantire il costante aumento della produzione petrolifera necessario a fare degli Stati Uniti il soggetto dominante. Nel suo libro Bethany McLean descrive in dettaglio i diversi fattori economici e geologici che potrebbero limitare il forte aumento della produzione di shale oil necessario a sostenere una politica di dominio energetico, tra cui il rapido calo nella produzione che caratterizza solitamente i pozzi di shale oil e le ingenti risorse di capitale necessarie a sostenere tale aumento.

Inoltre, altri paesi possiedono considerevoli riserve di shale oil e gas e potrebbero incrementare la propria produzione con conseguente spinta al ribasso dei prezzi. Il dominio energetico statunitense potrebbe avere bisogno di prezzi più elevati per sostenere gli enormi livelli produttivi di shale oil e gas ma ovviamente questi prezzi più elevati sarebbero in contraddizione con un boom dei livelli di produzione.

Una supremazia che nuoce all’ambiente
L’ordine esecutivo firmato dal presidente degli Stati Uniti nel marzo del 2017 sulla promozione dell’indipendenza energetica e della crescita economica ha revocato la maggior parte delle disposizioni promulgate dalle amministrazioni precedenti per far fronte al riscaldamento globale e alle conseguenze del cambiamento climatico, come pure la normativa sui parametri delle emissioni di carbonio. Il provvedimento legislativo ha inoltre abrogato il Climate Action Plan del 2013 e la strategia per ridurre le emissioni di metano sottoscritta nel 2014. Il nuovo documento presidenziale ha anche imposto l’immediata revisione di tutti i provvedimenti dell’Agenzia per la protezione ambientale “a rischio di gravare sullo sviluppo delle risorse energetiche nazionali, in particolare carbone, petrolio, energia atomica e gas naturale”. Il ritiro dall’Accordo di Parigi del 2015 rinnega quanto riconosciuto dai precedenti governi statunitensi, ovvero che il riscaldamento globale rappresenta una delle principali minacce per il pianeta, con l’aggravante che gli Stati Uniti intendono aumentare la produzione di combustibili fossili inquinanti come carbone e petrolio.

Gli Stati Uniti sono in rotta di collisione con la maggior parte degli altri paesi, che oltre a essere più "verdi" sarebbero anche i principali destinatari del forte incremento delle esportazioni di carbone, petrolio e gas da parte della nuova amministrazione statunitense. L’aggravarsi della crisi ambientale globale costringerà il governo statunitense a ridimensionare o addirittura ad abbandonare le proprie ambizioni di dominio energetico ad alta intensità di carbonio.

Infrastrutture progettate per l’interdipendenza
Nonostante gli Stati Uniti siano già il primo produttore di petrolio al mondo, con circa 11 milioni di barili al giorno, il paese dipende ancora dalle importazioni nette di circa 4 milioni di barili di petrolio al giorno, soprattutto da Canada, Messico e Arabia Saudita. Per motivi geografici e logistici, inoltre, gli USA scambiano circa 2 milioni di barili di petrolio al giorno con i paesi confinanti, ovvero Canada e Messico.

Da decenni è così ed è naturale che siano sorte infrastrutture logistiche e distributive tanto estese quanto complesse che intrecciano saldamente gli interessi di compagnie situate in paesi diversi.

Il dominio energetico renderà necessario un tipo diverso di infrastrutture. Il volume ancora ingente delle importazioni nette di energia statunitensi e gli inevitabili scambi energetici con i paesi confinanti dipingono un quadro di interdipendenza energetica che sarà improbabile rinnovare agevolmente o concretamente nell’immediato futuro.

Un’industria frammentata e difficile da monopolizzare
L’attuale panorama energetico globale mostra che abbondanti risorse energetiche esportabili sono in mano ai tradizionali paesi produttori di petrolio dell’OPEC ma anche a una serie di nuovi attori. Almeno 20 paesi OPEC e non-OPEC in Africa, America Latina, Medio Oriente e Asia esportano già oltre 500.000 barili di petrolio al giorno. Tutti intrattengono da tempo solide relazioni commerciali con alcuni dei più importanti consumatori di energia come Cina, Germania, India, Giappone e Corea del Sud.

Il cartello dei giganti del petrolio noto con il nome delle "Sette sorelle", che controllava ogni aspetto dell’industria degli idrocarburi globale, non esiste più da tempo. Al suo posto c’è un ecosistema globale, complesso e turbolento che include nuovi soggetti di ogni genere, da compagnie petrolifere indipendenti a società di fracking, da operatori finanziari dinamici, società di private equity e fondi speculativi a compagnie che costruiscono impianti eolici e solari o producono batterie su grande scala. Farli agire tutti in base a un’unica scaletta imposta da Washington sarà un’impresa molto difficile, se non impossibile.

Una politica dettata dall’ideologia, non dal mercato
Le dichiarazioni pubbliche di alcuni membri dell’attuale amministrazione statunitense lasciano supporre che la politica del dominio energetico sia basata sostanzialmente su considerazioni di natura politica e ideologica e non su criteri economici concreti. Per giustificare questa politica, il segretario degli Interni Zinke ha dichiarato senza mezzi termini che “l’amministrazione Obama aveva imposto una normativa ambientale eccessiva, che oltre a essere motivata ideologicamente ha preso ingiustamente di mira i combustibili fossili”. In una dichiarazione congiunta pubblicata dal “Washington Times”, il segretario Zinke, il segretario dell’Energia Rick Perry e l’allora direttore dell’Agenzia per la protezione ambientale Scott Pruitt hanno affermato che il dominio energetico significava “affrancarsi dall’instabilità geopolitica di altri paesi che usano l’energia come arma economica”, aggiungendo: “Dominare il settore dell’energia aumenterà la leadership e l’influenza globale degli Stati Uniti”. In altre parole, dopo essere stati l’incudine gli Stati Uniti diventerebbero il martello. Un’inversione di ruoli di tale portata, se mai fosse possibile, sarebbe costosa e richiederebbe molto tempo per realizzarsi. L’aumento della produzione petrolifera interna e la costruzione degli impianti per l’esportazione di petrolio e gas necessari a realizzare le ambizioni di dominio statunitensi richiederanno anni, se non addirittura decenni, questo tenendo conto delle oscillazioni, spesso considerevoli, del mercato globale dell’energia. Perché si concretizzi tale politica di dominio è necessario che anche le future amministrazioni la condividano, cosa molto improbabile.

Per concludere
Il dominio energetico significa essere in grado di influenzare o addirittura determinare la produzione, la distribuzione e il prezzo dell’energia a livello globale e diventare il leader mondiale nelle esportazioni di petrolio, gas e carbone. Per poter raggiungere questo obiettivo gli Stati Uniti comincerebbero praticamente da zero. Sono ancora un importatore netto di petrolio, per aumentare le esportazioni di gas naturale saranno necessari cambiamenti infrastrutturali significativi e al momento le esportazioni di carbone rappresentano appena lo 0,5 percento circa del consumo complessivo mondiale. Indubbiamente, il dominio energetico USA funziona meglio come slogan che come politica.